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Le Aree Protette sono una buona idea? Le posizioni al confronto

Potrebbe essere approvata nei prossimi giorni l’iniziativa del cosiddetto obiettivo 30×30, volta a designare come Aree Protette il 30 per cento delle terre emerse e degli oceani entro il 2030.

Lanciato dalla High Ambition Coalition for Nature and People, finora il progetto ha registrato le adesioni di oltre 100 paesi, più della metà delle nazioni del mondo.
Il prossimo passaggio chiave sarà la COP15, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità al via a Montreal, in Canada, mercoledì 7 dicembre.
Quella del 30×30 è infatti una delle proposte principali sul tavolo dei negoziati, che rappresenteranno un appuntamento cruciale per salvaguardare la biodiversità, ma anche per ristabilire l’equilibrio del rapporto uomo-natura. Secondo quanto riferisce la coalizione, si sta lavorando perché l’obiettivo 30×30 sia sancito da un accordo globale alla COP15, e si sta già iniziando a valutarne anche l’implementazione per poter mettere in atto il programma il prima possibile.

Salvaguardare la biodiversità significa proteggere il nostro futuro: COP15 ai blocchi di partenza

I lati oscuri delle Aree Protette

Se il 30×30 è visto da molti come un traguardo importante da raggiungere per la salvaguardia della natura e della biodiversità, numerosi esperti e organizzazioni ne sottolineano anche i lati oscuri. E proprio in vista della COP15 alcune importanti ONG hanno chiesto di fermare l’iniziativa.

«Un disastro per i popoli indigeni e un danno per un pianeta»

Secondo Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione, se l’obiettivo sarà approvato «costituirà il più grande furto di terra della storia e deruberà milioni di persone dei loro mezzi di sussistenza».

Infatti un aspetto chiave della vicenda, che probabilmente è stato spesso sottovalutato, è che individuare come aree protette il 30 per cento delle terre emerse coinvolgerebbe moltissimi territori abitati da popolazioni che da secoli hanno costruito lì le proprie vite e le proprie culture. Nel mirino, naturalmente, ci sarebbero soprattutto i popoli indigeni, oltre a numerose comunità che usano la terra per la propria sussistenza.

Secondo la legge internazionale, prima di poter avviare qualsiasi tipo di progetto sulle loro terre, è necessario avere il consenso previo, libero e informato delle comunità locali. «Ma le grandi organizzazioni per la conservazione – denuncia Survival International – non hanno mai davvero cercato di ottenere questo consenso. In molti casi, gli abitanti indigeni scoprono quello che sta accadendo solo nel momento in cui vengono sfrattati o quando nelle loro comunità arrivano i guardaparco armati».

In una dichiarazione congiunta alcune importanti ONG, tra cui Survival e Amnesty International, hanno denunciato che le Aree Protette già istituite finora, «cardine del modello di conservazione dominante condotto dall’Occidente, hanno comportato sfratti diffusi, fame, malattie e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, stupri e torture in Africa e Asia». Estenderle ulteriormente per raggiungere il traguardo del 30×30 «potrebbe causare ulteriori violazioni dei diritti umani – avvertono -, e avere altri impatti negativi su milioni di persone che sono le meno responsabili della crisi climatica e di biodiversità».

Secondo le ONG il target del 30% è stato stabilito senza una valutazione degli impatti sociali, e anche dal punto di vista scientifico convincerebbe poco: «per fermare il collasso ecologico sarà necessario ben più di una rete globale allargata di Aree Protette», sottolineano le organizzazioni, «e occorre focalizzarsi con molta più decisione sulla necessità di affrontare le cause reali della perdita di biodiversità, come il sovra-consumo».

Cosa chiedono le ONG

Dato che l’80% della biodiversità del mondo si trova nelle terre dei popoli indigeni, secondo Amnesty International, Survival e le altre ONG firmatarie della dichiarazione il modo migliore per conservare gli ecosistemi è proteggere i diritti di coloro che vivono e dipendono da essi.

Per qualsiasi obiettivo di conservazione, dunque, ritengono sia necessario un approccio radicalmente differente rispetto a quello del 30×30. Un approccio che:

  1. Dia priorità al riconoscimento e alla protezione dei sistemi di proprietà territoriale collettiva e consuetudinaria dei popoli indigeni, garantendo i loro diritti alla terra, alle risorse, all’auto-determinazione e al Consenso libero, previo e informato, come previsto dagli accordi internazionali sui diritti umani.
  2. Riconosca il diritto delle altre comunità che usano la terra per la sussistenza a essere protette dagli sfratti forzati, a godere di uno standard di vita adeguato e a essere consultate su ogni decisione che abbia un impatto sui loro diritti.
  3. Si concentri a garantire che tutte le specie e gli ecosistemi minacciati siano adeguatamente protetti, invece che ad aumentare semplicemente le Aree Protette.
  4. Affronti adeguatamente le cause che stanno alla base della perdita di biodiversità.

La dichiarazione integrale può essere consultata, in italiano, a questo link.

Per molti l’obiettivo 30×30 è lo strumento più efficace per contrastare la perdita di biodiversità. Ma non si escludono alternative alle Aree Protette

Tra le realtà che si sono schierate a favore della proposta c’è il WWF, che nelle sue raccomandazioni ai leader e delegati che prenderanno parte alla COP15 sulla biodiversità ha sottolineato proprio la necessità di approvare l’obiettivo 30×30.
«Così come già riconosciuto a livello europeo dalla Strategia 2030, il principale strumento di contrasto alla perdita di biodiversità è la creazione di aree protette si legge -. Questo obiettivo dovrebbe essere concordato a livello globale: l’economia mondiale trarrebbe grandi vantaggi dalla istituzione di aree protette o comunque tutelate in aree chiave per la biodiversità che coprano il 30% della superficie terrestre e il 30% della superficie marina».

«La nostra posizione si basa solo ed esclusivamente sul pieno rispetto dei diritti umani e sul consenso preventivo, informato e libero delle popolazioni indigene e delle comunità locali nelle aree da conservare», ha assicurato a IconaClima Isabella Pratesi, che dirige il programma Conservazione di WWF Italia. «Senza questi due presupposti non ci può essere protezione».

Pratesi sottolinea che sarebbe comunque possibile proteggere il 30% del territorio del pianeta anche con misure diverse dall’istituzione di aree Aree Protette, le cui criticità sul fronte dei diritti sono legate soprattutto all’imposizione di limiti all’accesso e alle attività umane.
Altri strumenti di protezione in linea con l’obiettivo 30×30 potrebbero essere le cosiddette OECM (Other Effective Area-Based Conservation Measures). «Sono misure che danno risultati di conservazione», ci spiega Pratesi, e – purché rispettino i criteri della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica – permetterebbero di proteggere «alcune aree abitate da popolazioni indigene/comunità locali, alcuni bacini idrografici per le città, alcuni pascoli gestiti dalle comunità locali con praterie autoctone, alcune zone costiere e marine protette per ragioni paesaggistiche o di interesse archeologico».

Le delegazioni che lavoreranno alla COP15 sulla biodiversità avranno insomma molto lavoro da fare. E sarà un lavoro importantissimo, con l’obiettivo più che mai urgente di definire nuovi obiettivi e sviluppare un piano d’azione per la natura entro il 2030 in un momento in cui il Pianeta si trova nel pieno dell’estinzione di massa più grave dall’epoca dei dinosauri.
Ma sarà fondamentale che al centro restino, sempre e comunque, i diritti umani.

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